Il talento femminile mortificato

Le donne sono più degli uomini, studiano di più e spesso  hanno risultati scolastici migliori dei loro coetanei, tanto da costituire oggi una fetta preponderante del capitale intellettuale del paese; ma lavorano di meno e, soprattutto, sono meno valorizzate sul posto di lavoro: il loro talento è dunque mortificato, con conseguenze che pesano sul vissuto delle singole donne ma anche sull’intera società, che si trova a dover fare a meno di risorse preziose.

Le donne che vivono in Italia sono quasi 31 milioni, e rappresentano il 51,3% della popolazione. Tra queste 4 milioni e 698 mila sono minori (il 15,2% del totale) e 7 milioni e 788 mila sono longeve con più di 65 anni (il 25,1%): queste ultime sono in forte crescita negli ultimi anni.

Uno degli ambiti in cui sono stati fatti maggiori passi avanti, annullando le differenze di genere è quello dell’istruzione; oggi le giovani donne studiano più degli uomini (il 57,1% dei laureati e il 55,4% degli iscritti a un percorso universitario nell’ultimo anno è donna), e con performance migliori: il 53,1% si laurea in corso, contro il 48,2% degli uomini; e  il voto medio alla laurea è 103,7 per le donne e 101,9 per gli uomini. Le donne sono in maggioranza anche negli studi post laurea: degli oltre 115.000 studenti che nell’a.a. 2017/2018 erano iscritti ad un dottorato di ricerca, un corso di specializzazione o un master, il 59,3% era una donna (tab. 1).

Eppure tutto questo non basta per avere una posizione di parità sul mercato del lavoro: infatti, le donne che lavorano sono meno degli uomini e, soprattutto, difficilmente ricoprono incarichi di responsabilità. Si tratta di fenomeni che sono comuni anche agli altri paesi europei, ma che vedono l’ Italia in una condizione di ancora maggiore ritardo.

E’ soprattutto sul piano della partecipazione femminile al mercato del lavoro che si dispiega il gender gap rispetto ai maschi e la distanza dagli altri Paesi.

In Italia le donne che lavorano sono 9 milioni e 768.000, e rappresentano il 42,1% del totale degli occupati. Nel 2018, con un tasso di attività femminile al 56,2% siamo all’ultimo posto nel ranking dei paesi comunitari condotto dalla Svezia, ove il tasso di attività femminile è pari all’81,2%, e lontanissimi dall’obiettivo del 75,0% che si è dato l’Unione Europea per il 2020. Guardando a quanto accade all’interno dei nostri confini, siamo molto lontani anche dal tasso di partecipazione degli uomini, che è pari al 75,1% (fig. 2).

Siamo indietro anche per tasso di occupazione, che nella fascia di età 15-64 anni è del 49,5% per le donne e del 67,6% per gli uomini, mentre nel confronto europeo fatto per la fascia d’età 20-64 anni il nostro tasso è del 53,1%, migliore solo di quello della Grecia (che è del 49,1%), e assai distante dai paesi più virtuosi.

Non solo le donne hanno maggiori difficoltà ad affacciarsi sul mercato del lavoro e a trovare un’occupazione stabile, ma hanno anche tassi di disoccupazione superiori a quelli degli uomini, per cui la disoccupazione nell’ultimo anno in Italia è dell’11,8% per le donne e del 9,7% per gli uomini.

Sulla base delle risposte fornite alla indagine campionaria realizzata nell’ambito del progetto Respect risulta che la quasi totalità degli italiani è convinto che per una donna avere un lavoro sia molto (79,3%) o abbastanza (18,8%) importante, e l’85,9% ritiene che per una donna sia altresì molto (51,1%) o abbastanza (34,8%) importante avere dei figli.

Eppure le donne italiane rimangono ancora, in gran parte, prigioniere degli stereotipi e di iniziative e servizi che non sono sufficienti per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Lavorare e formarsi una famiglia ancora oggi rimangono per molte due percorsi paralleli e incompatibili. Succede così che se per gli uomini il tasso di occupazione è man mano più elevato con la crescita del numero dei figli (a sottintendere che la crescita dell’età e delle necessità economiche sono accompagnate dal raggiungimento progressivo di una stabilità familiare e lavorativa), per le donne si verifica il fenomeno opposto, per cui con l’aumento dei figli diminuiscono le donne che hanno un lavoro.

Inoltre, quasi una donna occupata su tre (il 32,4%), per un totale di oltre tre milioni di donne, svolge un lavoro part time, quota che per gli uomini è solo dell’8,5% (tab. 2).

Il lavoro a tempo parziale, che implica un trattamento retributivo ridotto, minori possibilità di carriera ed è destinato a tradursi nel tempo in una pensione più bassa, lungi dal rappresentare una forma di emancipazione e una libera scelta, per circa due milioni di lavoratrici (il 60,2% delle donne che hanno il part time e il 19,5% delle occupate) è subìto per mancanza di alternative: tra gli uomini, solo il 6,4% degli occupati ha un trattamento di part time involontario. Ma anche quando il part time delle donne è frutto di una libera scelta, si tratta di un’opzione che è determinata, nel 47,7% dei casi, dalla necessità di prendersi cura dei figli o di persone anziane, spesso di entrambi, mentre solo il 24,4% delle donne adduce come motivazione la libera scelta di avere più tempo libero a disposizione; motivazione che, invece, è la principale quando a scegliere volontariamente il part time sono gli uomini.

Non solo le donne hanno maggiori difficoltà a trovare e a mantenere un’occupazione e sono costrette più spesso a ripiegare su un lavoro a tempo parziale, ma faticano anche a ritagliarsi uno spazio nelle posizioni apicali, un fenomeno che abbraccia anche la politica e l’amministrazione della cosa pubblica. Ne risulta che:

- in Italia solo un imprenditore/libero professionista su quattro è una donna: 159.000 in valore assoluto, mentre gli uomini sono 468.000;

- le donne manager sono appena il 27,0% del totale dei dirigenti, un valore che ci colloca nella parte bassa della classifica dell’Unione Europea e ampiamente al di sotto del valore medio, che è pari al 33,9% (tab.3);

- leggermente più rosea, anche se ben lontana dall’equilibrio, la situazione relativa alla presenza di rappresentanti di genere femminile nel Governo nazionale e in Parlamento, dove si ha un 30,4% di donne tra ministri, viceministri e sottosegretari, a fronte di una media Ue del 31,2%. Ancora più alta la rappresentanza politica delle donne in Parlamento: alla Camera le donne deputate sono il 36,1% del totale, un valore superiore alla media europea del 32,0%. Più bassa la quota rosa tra gli amministratori locali: le giunte regionali italiane sono composte per un 25,9% da donne (Ue28: 33,0%) e nei consigli regionali si scende al 19,8% in Italia, mentre a livello dell’Unione il corrispondente valore è pari al 33,1%. Infine, nell’Italia degli oltre 8.000 comuni, i sindaci donna sono solo il 13,6% del totale e i membri di consigli comunali il 30,5%.

Non solo le donne sono sottorappresentate nelle posizioni apicali, ma tendono anche ad essere vittima di overeducation, vale a dire che, anche quando sono occupate, non è raro il caso che svolgano lavori per cui sarebbe sufficiente un titolo di studio più basso di quello posseduto. Del resto, dall’indagine condotta nell’ambito del progetto Respect risulta che il 48,2% degli italiani è convinto che le donne per raggiungere gli stessi obiettivi degli uomini debbano studiare di più. E spesso non è neppure sufficiente: basti pensare che su 100 donne laureate che lavorano 14,1 sono imprenditrici o libere professioniste, e 18,4  sono dirigenti o quadri, mentre per gli uomini la quota è, rispettivamente, del 24,8% e del 25,2%. Anche tra le laureate la maggior parte è occupata con la posizione di impiegata (54,7% del totale, mentre gli uomini sono al 36,4%) (fig. 3).

Tra gli ambiti che maggiormente danno la misura degli squilibri di genere e che hanno ripercussioni sulla partecipazione e la posizione delle donne sul mercato del lavoro, vi è sicuramente quello della casa e della cura di figli e genitori, un impegno familiare che, ancora oggi, grava essenzialmente sulle donne, ancorché lavoratrici.  Del resto, il 63,5% degli italiani riconosce, neppure troppo implicitamente, che a volte può essere necessario o opportuno (molto d’accordo il 28,6%; abbastanza d’accordo il 35,0%) che una donna sacrifichi un po’ del suo tempo libero o della sua carriera per dedicarsi di più alla famiglia (fig. 4). Opinione che, addirittura, è fatta propria più dalle donne, che per prime tendono a perpetuare e a non mettere in discussione comportamenti e modi di pensare che hanno appreso nella famiglia di origine.

Al di là delle enunciazioni di principio, per cui sono una esigua minoranza gli uomini che ammettono che non si dedicano né si dedicherebbero mai a lavori domestici e di cura; nella realtà dei fatti la partecipazione degli uomini alle “faccende domestiche” è per lo più occasionale, pertanto:

- l’educazione e la cura dei figli sono ritenuti compiti preminentemente femminili, esercitati quotidianamente dal 97,0% delle donne italiane, anche se l’altro genitore sempre più frequentemente assume, in quest’ambito, un ruolo attivo o quantomeno partecipativo;

- ma è soprattutto la conduzione della casa – la cucina e le attività domestiche quotidiane – a marcare le differenze. Nel nostro paese l’81,0% delle donne cucina e fa lavori domestici quotidianamente, contro il 20,0% appena degli uomini: una differenza assoluta di 61 punti, la più elevata nell’Unione Europea dopo quella della Grecia (69 punti) (tab. 4).