La società irrazionale

Gli italiani e l’irrazionale

Vaccini efficaci disponibili in tempi rapidi, sussidi e ristori di Stato a tutti, un robusto rimbalzo dell’economia e un cospicuo piano di rilancio finanziato dall’Unione europea: sono notizie che, dopo la paura nera dello scorso anno, dovrebbero far tirare un sospiro di sollievo e far gioire d’orgoglio per la tenuta socio-economica del Paese. Si tratta di una vittoria della ragione, della umana facoltà razionale di risolvere i problemi. Eppure, all’allentarsi della pressione dell’emergenza, non si sentono soltanto sospiri di sollievo o echi di esultanza, ma anche mugugni, lamentele, accuse, risentimenti.

La razionalità che nell’ora più cupa palesa la sua potenza risolutrice lascia il posto in molti casi a una irragionevole disponibilità a credere alle più improbabili fantasticherie, a ipotesi surreali e a teorie infondate, a cantonate e strafalcioni, a svarioni complottisti, in un’onda di irrazionalità che risale dal profondo della società. Il 31,4% degli italiani oggi si dice convinto che il vaccino è un farmaco sperimentale e che quindi le persone che si vaccinano fanno da cavie, il 10,9% sostiene che il vaccino è inutile e inefficace, per il 5,9% (cioè circa 3 milioni di persone) il Covid-19 semplicemente non esiste. In definitiva, dalle vicende del periodo emergenziale il 12,7% degli italiani trae la conclusione che la scienza provoca più danni che benefici (tab. 1).

L’irrazionalità ha infiltrato il tessuto sociale, sia le posizioni scettiche individuali, sia i movimenti collettivi di protesta che quest’anno hanno infiammato le piazze (tab. 2):

-    per il 67,1% degli italiani esiste uno “Stato profondo”, cioè il potere reale è concentrato, in modo non pienamente democratico, nelle mani di un gruppo ristretto di potenti, composto da politici, alti burocrati e uomini d’affari;

-    per il 64,4% le grandi multinazionali sono le responsabili di tutto quello che ci accade;

-    per il 56,5% esiste una casta mondiale di superpotenti che controlla tutto.

La variante cospirazionistica, tendente alla paranoia, ispirata alla teoria del “gran rimpiazzamento” ha contagiato il 39,9% degli italiani convinti del pericolo reale della sostituzione etnica: identità e cultura nazionali spariranno a causa dell’arrivo degli immigrati, portatori di una demografia dinamica rispetto agli italiani che non fanno più figli, e tutto ciò accade per interesse e volontà di presunte opache élite globaliste.

Sono diffuse anche diverse tecno-fobie, visto che il 19,9% degli italiani considera la tecnologia 5G uno strumento molto sofisticato per controllare le menti delle persone. Si arriva al negazionismo storico-scientifico, con il 10,0% degli italiani convinti che l’uomo non sia mai sbarcato sulla Luna e il 5,8% sicuro che la Terra sia piatta, precipitando così in un sorprendente rigurgito premoderno.

Di fianco alla maggioritaria società ragionevole e saggia, si leva un’onda di irrazionalità, un sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico, che pretende di decifrare il senso occulto della realtà circostante. Dalla medicina alla tecnologia, nulla sfugge al tritacarne dell’irrazionale, che si ritaglia uno spazio non modesto nel discorso pubblico, conquistando i vertici dei trending topic nei social network, scalando le classifiche di vendita dei libri, occupando le ribalte televisive, orientando le posizioni e i comportamenti di molte persone.

Le proposte razionali che indicano la strada per migliorare la situazione vengono delegittimate a priori per i loro supposti intendimenti, con l’accusa di favorire interessi segreti e inconfessabili. Il 29,7% degli italiani non crede che il razionalissimo Pnrr cambierà il Paese, perché è condizionato da lobby che volgeranno tutto a proprio beneficio o perché la Pubblica Amministrazione non starà al passo, malgrado gli annunci, secondo il 44,3% (tab. 3).

Se il compito è dare l’identità di periodo della società italiana, nell’alveo dei processi lunghi di trasformazione, bisogna osservare questo segmento sociale, pur minoritario, perché è la spia di un fenomeno più ampio, di un disagio che rivela una inclinazione profonda. L’irrazionale che oggi si manifesta nella nostra società ha radici socio-economiche profonde, secondo una parabola che va dal “rancore” al “sovranismo psichico”, e che ora evolve diventando rifiuto tout court del discorso razionale.

Nel ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali

Bisogna interrogarsi sul perché una componente tutt’altro che marginale della società prende le distanze dal discorso razionale. L’irrazionalità non è semplicemente una distorsione psichica legata alla pandemia, bensì l’esito dell’erosione del lungo ciclo storico-sociale in cui la ragione costituiva lo strumento per proteggersi dall’incertezza dell’ignoto e dai rischi esistenziali. Ma oggi la realtà razionale tradisce sempre più spesso le aspettative soggettive che essa stessa ha alimentato. Ciò dipende dal fatto che siamo entrati in un nuovo ciclo, quello dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali. E questo determina un circolo vizioso: bassa crescita economica, ridotti rientri in termini di gettito fiscale, quindi l’innesco della spirale del debito pubblico, una diffusa insoddisfazione sociale, quindi la ricusazione del paradigma razionale.

Per due terzi degli italiani (il 66,2%) nel nostro Paese si viveva meglio in passato: è il segno di una corsa percepita verso il basso della società e dell’economia.

Uno sguardo lungo rende le cose più chiare. Il Pil dell’Italia era cresciuto complessivamente del 45,2% in termini reali nel decennio degli anni ’70, del 26,9% negli anni ’80, del 17,3% negli anni ’90, del 3,2% nel primo decennio del nuovo millennio, dello 0,9% nel decennio pre-pandemia, per poi crollare di quasi 9 punti percentuali nel 2020 (fig. 1).

Negli ultimi trent’anni di globalizzazione accelerata, tra il 1990 e oggi, l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui le retribuzioni medie lorde annue sono diminuite: -2,9% in termini reali rispetto, ad esempio, al +276,3% della Lituania, il primo Paese in graduatoria. Lavorare in Italia rende meno rispetto a trent’anni fa e siamo l’unica economia avanzata in cui ciò è avvenuto (fig. 2).

Non a caso, l’82,3% degli italiani ritiene di meritare di più nel lavoro e il 65,2% nella propria vita in generale: una cocente disillusione rispetto agli investimenti economici realizzati e alle aspettative sul piano emotivo. Qui si originano le inquietudini della società irrazionale: il 69,6% degli italiani si dichiara molto inquieto pensando al futuro, e il dato sale al 70,8% tra i giovani e al 76,9% nei ceti a più basso reddito (tab. 4).

Del resto, le previsioni di crescita del Governo contenute nella Nota di aggiornamento al Def, che pure incorporano gli effetti moltiplicatori sull’economia degli investimenti previsti dal Pnrr, segnalano il robusto rimbalzo del Pil nel 2021 (+6,0%), che poi via via si affievolisce: +4,7% nel 2022, +2,8% nel 2023, +1,9% nel 2024, con prospettive di ripiegamento verso quella Italia dello “zero virgola” che ben conoscevamo prima della pandemia.

Infatti, per il 51,2% degli italiani (il 55,0% dei giovani), malgrado il rimbalzo del Pil e dei consumi di quest’anno, non torneremo più alla crescita economica e al benessere del passato (tab. 5).

Il caso emblematico del ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali è quello dei percorsi di istruzione e formazione. Le generazioni più competenti e titolate di sempre sono destinate a redditi bassi e a una precarietà continuata. L’81,1% degli italiani ritiene, infatti, che oggi è molto difficile per un giovane vedersi riconosciuto nella vita l’investimento di tempo, di energie e di risorse profuso nello studio. Più di un terzo (il 35,5%) è convinto che semplicemente non conviene impegnarsi per laurearsi, conseguire master e specializzazioni, per poi ritrovarsi invariabilmente con guadagni minimi e rari attestati di riconoscimento. Il contesto rende non più conveniente fare quello che la saggezza razionale indicherebbe, ovvero investire le proprie risorse sul futuro con la promessa che poi si starà meglio, individualmente e collettivamente.

Così, nell’ora della tanto attesa uscita dalla pandemia, quella porzione della società non più fiduciosa, né saggia, ma inquieta e insoddisfatta, si scopre infiltrata dall’irrazionale. Ecco il contesto mutato strutturalmente nel lungo periodo in cui irrompe l’irrazionale. Che non è l’effetto distorto di un digitale pervasivo, l’operazione compiuta da avidi imprenditori delle fake news o da imbonitori della politica. È invece una reazione inscritta nella materialità delle vite delle persone convinte che quel che si avrà in futuro non è più l’esito delle attuali scelte razionali. È la convinzione che rinunce, sacrifici, pene e investimenti individuali non porteranno comunque a un futuro migliore. È l’esito di aspettative soggettive oggi insoddisfatte, pur essendo legittime in quanto alimentate dalle stesse promesse razionali.

Il rischio di erosione del patrimonio delle famiglie

Solo il 15,2% degli italiani ritiene che, dopo l’esperienza della pandemia, la propria situazione economica personale sarà migliore rispetto a quella attuale. Per la maggioranza (il 56,4%) resterà uguale e per un consistente 28,4% peggiorerà (fig. 3).

Se la società ha dimostrato di saper reagire allo shock economico e sociale della pandemia, le ragioni vanno ricercate nei capisaldi del modello di sviluppo italiano, fondato sulla dialettica positiva tra spesa pubblica, ruolo delle imprese e delle famiglie.

La famiglia è stata strategica nel farsi carico di bisogni sociali ad alta complessità, integrando o addirittura sostituendo il welfare pubblico. Al netto di un impegno finanziario dello Stato che non è mai mancato (nel periodo 2010-2020 i trasferimenti sociali sono aumentati del 26,1% in termini reali e del 79,2% se si escludono i trasferimenti pensionistici), il protagonismo delle famiglie è evidente:

-    8,9 milioni di over 65 anni contribuiscono economicamente alle famiglie di figli e nipoti, di cui 2,9 milioni lo fanno regolarmente;

-    6,8 milioni di giovani ricevono soldi da genitori e nonni, di cui 2 milioni regolarmente.

Non a caso, il 72,8% degli italiani è convinto che per realizzarsi nella vita, compiere quei passaggi decisivi che segnano l’ingresso nell’età adulta, come acquistare una casa o mettere su un proprio nucleo familiare, conta soprattutto l’aiuto economico della famiglia d’origine, ovvero la disponibilità di immobili, proprietà, risparmi, che fanno sentire con le spalle coperte. È un’idea molto radicata anche tra i laureati (69,7%) e tra i giovani (66,3%) (tab. 6).

Nel 2020 la ricchezza delle famiglie, intesa come la somma di attività reali e finanziarie al netto delle passività, risulta pari a 9.939 miliardi di euro (tab. 7):

-    il patrimonio in beni reali ha un valore complessivo di 6.100 miliardi di euro, pari al 61,4% del totale;

-    depositi e strumenti finanziari ammontano a 4.806 miliardi: al netto delle passività (967 miliardi), il patrimonio finanziario rappresenta il 38,6% del totale.

Se con la pandemia la ricchezza nel complesso è rimasta sostanzialmente stabile rispetto al 2019 (+0,5%), tuttavia la sua evoluzione nell’ultimo decennio (2010-2020) rivela dinamiche che ne stanno modificando la composizione. Infatti, il patrimonio degli italiani si sta riducendo nel tempo: -5,3% in termini reali nel decennio 2010-2020, come esito della caduta a due cifre del valore dei beni reali (-17,0%), non compensata del tutto dalla crescita delle attività finanziarie (+16,2%). Gli ultimi dieci anni segnano quindi una netta discontinuità rispetto al passato: si è interrotta la corsa verso l’alto delle attività reali che proseguiva spedita dagli anni ’80 (con un boom del +50,4% nel periodo 2000-2010).

La riduzione del patrimonio, esito della diminuzione del reddito lordo delle famiglie (-3,8% in termini reali nel decennio 2010-2020), mostra come si sia indebolita la capacità degli italiani di formare nuova ricchezza. È un trend che il confronto internazionale sull’evoluzione della ricchezza netta pro-capite rende evidente. Infatti (tab. 8):

-    nel 2010 essa era pari nel nostro Paese a 159.300 euro. Fatto 100 il dato italiano, quello del Canada era 86, della Francia 94, della Germania 71, del Regno Unito 83, degli Stati Uniti 105;

-    nel 2019 il dato era pari a 166.300 euro (-5,2% in termini reali rispetto al 2010, nonostante l’aumento del valore nominale). Fatto 100 il dato italiano, il valore del Canada è diventato 120, della Francia 112, della Germania 102, del Regno Unito 110, degli Stati Uniti 204.