La scuola e i suoi esclusi

La scuola sta vivendo, come tutto il Paese, un’esperienza drammatica e unica, ma sta anche dimostrando, pur tra mille difficoltà, problematiche irrisolte e incertezze, di saper trovare al suo interno strumenti, risorse, capacità ed energie per portare avanti la propria missione con coraggio e determinazione. Una missione che, a causa del distanziamento sociale, si arricchisce di ulteriori valenze, in quanto si pone come garante, non solo dell’educazione dei cittadini, ma anche della stessa coesione sociale e della capacità di tenuta del Paese.

Numerose indagini sono state realizzate in questo periodo sul tema della didattica a distanza nelle scuole italiane, dando voce al punto di vista dei cittadini, degli studenti e delle loro famiglie. Alcune informazioni emergono anche dal monitoraggio realizzato dal Miur soprattutto in relazione alla dimensione quantitativa del fenomeno.

Nel primo numero del Diario della transizione 2020, il Censis ha inteso aggiungere un ulteriore tassello conoscitivo, dando voce, come fa da alcuni anni, alle opinioni dei dirigenti scolastici in merito ad alcuni aspetti di questo periodo emergenziale che impattano sul sistema scolastico italiano, con particolare riferimento all’attivazione di modalità e strumenti di didattica a distanza.

Hanno partecipato all’indagine, svoltasi mediante somministrazione con metodologia Cawi (Computer Assisted Web Interviewing) di un questionario semi-strutturato, 2.812 dirigenti scolastici (più del 35% del totale: scuole statali e istituti equiparati agli statali della Provincia autonoma di Trento e della Valle d’Aosta).
Tutte le aree del Paese sono adeguatamente rappresentate: il 25,3% del campione è costituito, infatti, da un dirigente di istituti dislocati nel Nord-Ovest del Paese, il 20,2% nel Nord-Est, il 18,9% nel Centro e il 35,6% nel Sud.

In linea con l’universo di riferimento, il 70,9% dei rispondenti dirige istituti del primo ciclo (fino alla scuola secondaria di primo grado) e il 33,9% istituti secondari di secondo grado (il totale è superiore a 100 perché in alcuni casi la dirigenza scolastica è attribuita a istituti di entrambi i cicli, soprattutto nel caso di reggenze. Tra i rispondenti, il 12,4% è anche reggente di un altro istituto). L’indagine è stata realizzata tra il 10 e il 27 aprile 2020.

La popolazione scolastica

Da molti anni ormai, per ragioni essenzialmente demografiche, la popolazione scolastica osserva un trend decrescente, non compensato né dall’aumento della scolarità, né dal progressivo aumento degli studenti di origine immigrata, che nel 2018-19 sono arrivati a costituire il 10% del totale della popolazione scolastica.
Parallelamente, è diminuito, anche a seguito dell’accorpamento degli istituti sottodimensionati, il numero di istituzioni scolastiche e dei relativi dirigenti, sono diminuite le stesse sedi scolastiche.

Gli insegnanti, dopo un lungo periodo di contrazione, hanno ripreso a crescere, ma le nuove assunzioni non sono bastate a riequilibrare la proporzione generazionale, e abbiamo un corpo docente tra i più anziani dei Paesi Ocse, con una quota di ultracinquantenni pari al 59% del totale (Eag).

Non da ultimo, sono tendenzialmente in contrazione anche gli investimenti pubblici nella scuola.

Il segno meno che caratterizza la scuola non è solo un mero indicatore numerico, ma simbolicamente si allarga anche ad una sorta di depauperamento valoriale che ha investito la funzione stessa dell’istituzione scolastica e la figura docente.

Ciò nonostante, la fase di lockdown, con tutte le difficoltà e i disagi che ha comportato, ha contribuito a riportare alla ribalta il mondo della scuola, con le contraddizioni che contraddistinguono il suo posizionamento al centro dello sviluppo del Paese, e le criticità che attendono da sempre di essere superate; per citarne alcune:
-    da un lato, l’importanza indiscussa dell’aumento della scolarizzazione della popolazione per la crescita del Paese e dall’altro, le difficoltà a avere finanziamenti adeguati, la persistenza del modello “giolittiano”, la carenza strutturale di offerta nella fase pre-scolare, la bassa considerazione dei titoli di studio da parte del mondo del lavoro, la relazione quasi schizofrenica con le famiglie sempre in bilico tra affidamento totale dei figli all’istituzione scolastica e strenua difesa degli stessi;
-    da un lato, la scolarità obbligatoria, il diritto/dovere all’istruzione, la scuola inclusiva e dall’altro, gli abbandoni scolastici, il sostegno non sempre garantito, la fragilità, che porta a dispersione non contrastata, di bambini e ragazzi a secondo del contesto socio-economico familiare e territoriale di riferimento. 

Ma ha anche messo in altrettanta evidenza l’esistenza e il ruolo di una comunità vastissima e attiva che si coagula attorno al mondo della scuola: studenti e loro famiglie, insegnanti, dirigenti scolastici e amministratici e personale Ata e con altro ruolo, educatori, ecc.

Sono circa 8,5 milioni i bambini e i ragazzi che, dalla scuola dell’infanzia a quella di secondo grado, si sono ritrovati ad essere interessati (ma molti anche esclusi) dalla più grande, per quanto non voluta e non programmata, sperimentazione della scuola italiana, quella della didattica a distanza.
Un altro milione è composto da docenti, dirigenti scolastici e amministrativi, personale Ata. 

I numeri delle sacche di fragilità: inclusione e esclusione nella scuola italiana

Aumento della scolarità, strategie, progetti e programmi di inclusione, personalizzazione e diversificazione dei percorsi, innovazione didattica e tanti altri sono gli strumenti messi in campo dalla scuola, non solo italiana, per garantire una educazione adeguata e di qualità per tutte le nuove generazioni. Nonostante, nel lungo periodo, è innegabile che siano stati fatti passi in avanti, la dispersione scolastica è ancora troppa ampia e lo scoppio della pandemia ha messo in luce la fragilità e forse anche l’insufficienza del quotidiano lavoro di inclusione delle fasce di popolazione scolastica più a rischio di esclusione e insuccesso scolastico.

L’area dello svantaggio scolastico comprende problematiche diverse e viene indicata come area dei Bisogni Educativi Speciali. 

In ogni classe possono esserci alunni che, per vari motivi, richiedono una speciale attenzione: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse. 

Un primo elemento di fragilità è costituito dallo status socio-economico di provenienza: al 2018 sono più di 3 milioni (3.039.268) i minori a rischio di povertà o esclusione sociale e 1,6 milioni quelli che vivono in condizioni di povertà assoluta. tale povertà materiale è significativamente correlata alla cosiddetta povertà educativa, testimoniata sia da più basse performance cognitive sia da un minore accesso all’offerta culturale. In termini di apprendimento i dati Ocse-Pisa del 2018 segnalano che nel complesso circa un quarto dei 15enni italiani non raggiunge le competenze minime in matematica, lettura o scienze ma soprattutto mettono in evidenza le differenti performance a seconda dello status della famiglia d’origine: la quota di coloro che non raggiungono le competenze minime in lettura, tra i ragazzi che appartengono a famiglie che si collocano nel quintile socioeconomico più basso è pari al 42,% contro il 13,8% dei coetanei che vivono in famiglie benestanti. parimenti in matematica, le rispettive quote ammontano a 40,6% e 10,9% e in scienze a 38,3% e 11,4%.

In un periodo in cui la disponibilità finanziaria, tecnologica, di tempo e il posto che la scuola occupa nella scala valoriale di famiglie alle prese con la fatica del vivere quotidiano è facilmente ipotizzabile che le scuole abbiano dovuto mettere in campo tutto il loro potenziale di risorse umane e materiali per non perdere i loro studenti più vulnerabili.

Una vulnerabilità che abbraccia anche una parte della popolazione scolastica di origine straniera. per quanto si assista ad un progressivo miglioramento di alcuni indicatori dell’efficacia degli strumenti e delle strategie di inclusione per questa tipologia di utenza, i giovani di origine straniera si caratterizzano per tassi di scolarità superiore inferiori a quelli dei loro coetanei italiani (65,8% contro il 79,7%). 

Nonostante gli esiti positivi delle strategie e degli strumenti messi in atto dal sistema scolastico italiano per rispondere ai bisogni di formazione e inclusione della utenza di origine straniera, testimoni da alcuni indicatori, tra gli oltre 800.000 studenti non italiani, i soggetti più a rischio sono costituiti dalle prime generazioni (circa il 47% del totale) che trovano maggiori difficoltà anche per ragioni linguistiche e culturali nel raggiungere livelli minimi di apprendimento e che, a fronte dell’interruzione della didattica in presenza, sono potenzialmente più a rischio dispersione.

Un’ultima tipologia di studenti che richiede una particolare attenzione e cura, e per la quale la socialità che si instaura nelle aule scolastiche è insostituibile, è quella degli alunni con disabilità (259.757 alunni con disabilità che stanno frequentando la scuola nel corrente anno scolastico) o con disturbi specifici dell’apprendimento (276.000 studenti con Dsa).

La digitalizzazione della scuola e della didattica

Il percorso di digitalizzazione “strutturale” della scuola italiana vede un punto di avvio nel 2007, quando si comincia a parlare di un Piano Nazionale per la Scuola Digitale-PNSD”, quale piano di indirizzo ministeriale per accompagnare la scuola verso l’innovazione digitale e per modificare gli ambienti di apprendimento. Fino al 2012 il risultato più evidente e ampio è stata la progressiva diffusione nelle classi – un po’ meno il suo utilizzo completo e avanzato nella didattica - della Lavagna Interattiva Multimediale . A seguito della prima digitalizzazione delle scuole, è emerso il problema della connettività wireless e della formazione dei docenti, ma anche la consapevolezza di non poter puntare solo sull’acquisto di dispositivi fissi, ingombranti, poco flessibili e soggetti a obsolescenza. La scarsità di fondi disponibili e le diverse sensibilità al tema hanno fatto si che sono alcune scuole, a macchia di leopardo, abbiano potuto cimentarsi con il modello delle scuole 2.0 e delle cl@ssi 2.0.

Tutti temi che nel Pnsd del 2015 hanno trovato ampio spazio, con l’adozione di un approccio Byod (Bring Your Own Device), la realizzazione di un ampio e articolato programma di formazione, l’individuazione di un “animatore digitale” e di un team digitale in ogni scuola, l’accento posto sulla connettività a banda larga.

Un framework comune di riferimento non sufficiente però a contrastare la disomogeneità tra territorio e territorio, ma soprattutto tra scuola e scuola, sia in termini di scelte e dotazioni tecnologiche, sia in termini di competenze digitali e di educazione all’uso dei media, per l’insegnamento e l’apprendimento.
Non sono a disposizione dati recenti sul processo di digitalizzazione della scuola italiana, essendo possibile fare riferimento ad una rilevazione Miur del 2016/17 utilizzata dall’Agcom nel rapporto “Educare digitale”, da cui emerge che a quella data se il 97% delle scuole disponeva di una connessione, solo l’11,2% era connessa a una velocità superiore ai 30 Mbps.

Sempre nel 2016, nel secondo anno di attuazione del Pnsd una indagine Censis su 1.221 dirigenti scolastici di ogni ordine e grado di scuola segnalava come tra i principali rischi vi fosse quello di una formazione inadeguata e insufficiente (77,2%). Al secondo posto (70,9%), si collocava il rischio che l’”entusiasmo tecnologico” metta in ombra la rivisitazione dei modelli pedagogici, ovvero che le tecnologie siano utilizzate nelle scuole con un approccio didattico tradizionale. Si tratta di una criticità già emersa nel passato, quando alla diffusione delle Lim nelle classi in molti casi non ha fatto seguito un loro utilizzo diverso da quello della vecchia lavagna di ardesia (tab. 1).

Quasi la metà dei dirigenti (47,6%), inoltre, e in misura maggiore i capi d’istituto delle scuole del Centro e del Mezzogiorno d’Italia, esprimevano la preoccupazione di una possibile accentuazione delle disparità tra scuole “forti”, con esperienze pregresse, buona dotazione tecnologica e docenti formati all’uso delle nuove tecnologie e le scuole che si affacciavano allora al mondo digitale. 

L’esperienza pregressa e la capacità progettuale delle istituzioni scolastiche sono, d’altra parte, i fattori determinanti per poter accedere ai finanziamenti erogati tramite bandi di gara, che hanno guidato la maggior parte degli investimenti innovativi nel mondo della scuola, contribuendo a determinare uno scenario a macchia di leopardo.

Circa un terzo dei capi d’istituto faceva, infine, riferimento alla preoccupazione di operare scelte tecnologiche non adatte alle effettive esigenze didattiche ed amministrative, cui si collega anche l’assenza di un progetto organico d’istituto, segnalato dal 31,8% degli intervistati.

In effetti, in relazione ad esempio all’utilizzo di piattaforme tecnologiche a uso didattico, pur confidando in tutto (61,2%) o in parte (38%) nella loro efficacia per coinvolgere gli studenti e incrementare gli apprendimenti, i dirigenti intervistati a conclusione dell’anno scolastico 2015-2016 delineavano uno scenario, per quanto in continuo mutamento, del tutto disomogeneo. 

Nel 50,9% delle scuole da loro dirette non erano utilizzate piattaforme e ambienti online dedicati, e laddove esse erano state introdotte nella pratica didattica, la scelta della specifica piattaforma era lasciata, nel 55% dei casi, alla decisione del singolo docente, a seconda delle sue esigenze didattiche. Solo nel 39,3% delle scuole, si era optato, ferma restando la possibilità di ricorrere anche ad altri strumenti, per una scelta condivisa di una piattaforma d’istituto (tab. 2). 

Anche sotto l’ottica delle scelte tecnologiche, dunque, i dati forniti dai capi d’istituto danno conto della vivacità e del fermento esistenti negli ultimi anni in gran parte delle realtà scolastiche e degli insegnanti – pur tra mille difficoltà, meccanismi non ben oleati, tempi serrati e sovrapposizione di impegni. L’iniezione di digitale nel sistema scolastico ha però lasciato ampi spazi di navigazione a vista, che sono da valutare positivamente in relazione ad una prima fase che per molti operatori della scuola è stata una fase di scoperta e sperimentazione ma che, come evidenziato dall’emergenza Covis-19, dovrà essere seguita da una fase di selezione, riflessione e condensazione intorno ad un progetto e un modello didattico d’istituto, altrettanto importante e da un’azione forte di programmazione, coordinamento e definizione di linea guida da parte del Miur.

Una scuola ferma, ma non immobile

La scuola non sembra aver risolto contraddizioni e criticità, ma non è stata ferma, anzi nei decenni passati si sono prima susseguite una serie di “riforme di sistema”, che hanno toccato un po’ tutti i settori e gli argomenti, ma tutte accomunate da un’unica bussola, quella delle riforme “a costo zero”, anzi magari risparmiando anche un po’. Uno stress non indifferente per la comunità scolastica.

Poi man mano si è dato spazio ad interventi di “manutenzione” e fine tuning, e molto debolmente sono stati rilanciati alcuni investimenti, compresi quelli che la digitalizzazione della scuola e della didattica.

Ma le vere protagoniste del cambiamento in questi ultimi tempi sono state le singole scuole, quando non i singoli docenti che – certamente anche sulla base di un quadro normativo di riferimento e dei finanziamenti disponibili per le progettualità più innovative – stanno sperimentando, proponendo, esercitando, dimostrando la fattibilità di una scuola diversa.

All’affacciarsi dell’emergenza Covid-19, alcuni movimenti e iniziative di innovazione potevano contare su numeri e esperienze non indifferenti, che sono stati messi a disposizione delle comunità scolastiche alla prova della Dad, ma che possono essere un prezioso punto di riferimento per la progressiva riapertura delle scuole.

A maggio 2020, sono, ad esempio 1.139 le istituzioni scolastiche che aderiscono al gruppo delle avanguardie educative (il 49,3% nelle aree del Mezzogiorno), movimento scaturito da un’idea progettuale dell’Indire, che sperimenta in varie aree di innovazione didattica, e che nasce ufficialmente nel 2014 con l’adesione di sole 22 istituzioni scolastiche “fondatrici”. 

Tra le idee progettuali più sperimentate (da 622 istituzioni scolastiche, il 54,6%) al primo posto si colloca la flipped classroom, la classe capovolta, che si basa sul principio che la lezione diventa compito a casa mentre il tempo in classe è usato per attività collaborative, esperienze, dibattiti e laboratori. In questo contesto, il docente non assume il ruolo di attore protagonista, diventa piuttosto una sorta di facilitatore, il regista dell’azione didattica. Quindi a casa lo studente ha per esempio a disposizione video, anche autoprodotti dall’insegnante, e altre risorse digitali come contenuti da studiare, mentre in classe gli studenti sperimentano, collaborano, svolgono attività laboratoriali. Un’esperienza che si è rilevata preziosa nel passaggio alla didattica a distanza, pur avendo ovviamente perso tutta la parte – fondamentale – del lavoro in classe. Più in generale, tutte le idee fanno o possono far leva sulle tecnologie didattiche digitali, ma il fulcro dell’iniziativa è proprio sull’innovazione della didattica in tutte le sue componenti.

Un altro esempio di successo di innovazione dal basso è quello del movimento “scuola senza zaino”, che vede protagoniste soprattutto ma non solo le scuole primarie. Esso nasce nel 2002 a Lucca, per poi diffondersi in regione Toscana e in altre parti di Italia e che, in sintesi, propone un approccio globale al curricolo, basato su i valori di ospitalità (ambiente scolastico), responsabilità (autonomia e responsabilità dell’alunno) e comunità scolastica.

Nel 2013 gli istituti aderenti erano 50, oggi sono 296, per un totale di 604 plessi.
Numerose le esperienze di scuole all’aperto, nel bosco e simili, che riguardano essenzialmente le scuole dell’infanzia e primaria. Uno dei movimenti più strutturati è quello delle “scuole all’aperto”, nato in Emilia Romagna e avviato nel 2016. A fine 2018 le scuole aderenti erano 25, ma sempre più sono le richieste di adesione da parte di scuole di tutta Italia.

Un altro nodo importante di innovazione è quello della community bookinprogress, fondata da un istituto superiore pugliese, che conta 85 scuole aderenti, accomunata da un’idea di innovazione che passa anche (ma non solo) tramite il superamento dell’utilizzo del solo libro di testo, promuovendo l’autoproduzione di testi e materiali didattici da parte dei docenti aderenti alla rete.

Non mancano esperienze strutturate di didattica a distanza, che scaturiscono dalla necessità di dare risposte a esigenze specifiche. L’esempio più antico è quello sviluppato nell’ambito del progetto “scuola in ospedale” (e d’istruzione domiciliare per studenti con patologie gravi che non permettono la frequenza) nata inizialmente dalla disponibilità e volontà di singoli operatori e istituzioni è oggi diffusa in tutti gli ordini e gradi di scuola e la sua presenza nelle strutture ospedaliere garantisce ai bambini e ai ragazzi ricoverati il diritto all’istruzione come diritto a conoscere e ad apprendere in ospedale, nonostante la malattia. Pur essendo centrata sulla presenza di operatori e docenti e sulla attivazione di aule e laboratori nelle strutture di ricovero, in determinati casi di necessità di isolamento ha introdotto anche pratiche didattiche a distanza. Di natura locale è l’esperienza delle “scuole in rete” in Liguria, che a partire dall’esigenza dell’istituto comprensivo di Sassello di connettere anche telematicamente le sue 13 sedi scolastiche per finalità didattiche e amministrative si è allargato, grazie alla regione, a 4 istituti comprensivi delle aree montane, creando una rete in grado di superare l’isolamento territoriale, promuovere l’interazione virtuale tra classi, realizzare un vero e proprio ambiente comune di apprendimento.

Competenze, disponibilità di device, ambienti per la didattica a distanza

Un altro aspetto poco considerato in passato come un nodo complesso e interdipendente, ma che ha delle implicazioni non solo nella didattica a distanza ma in generale sulle possibilità di un apprendimento efficace da parte degli studenti italiani, è quello determinato dall’intreccio tra competenze digitali possedute, disponibilità di tecnologie e ambienti e composizione familiare.

Studiare e lavorare a casa sta implicando di avere a diposizione spazi sufficienti per tutti i componenti della famiglia, una strumentazione informatica tale da consentire agli studenti di seguire le lezioni a distanza, ai genitori che possono lavorare di farlo da casa, a diversi componenti della famiglia di potersi collegare e utilizzare internet anche per motivi di svago e utilizzo del tempo libero. Una condizione “ideale” che ha escluso una quota importante della popolazione.

I più recenti dati Istat, relativi al 2018-19, mostrano infatti che:
- il 33,8% delle famiglie non ha un computer o un tablet in casa, il 47,2% ne ha uno e il 18,6% ne ha due o più. La percentuale di chi non ne possiede almeno uno scende al 14,3% tra le famiglie con almeno un minorenne e al 7,7% tra quelle in cui almeno un componente è laureato; anche se il pc è presente, solo per il 22,2% delle famiglie è disponibile un computer per ciascun componente;
- 850.000 ragazzi tra i 6 e i 17 anni (il 12,3%) non hanno un pc o un tablet a casa e di questi più della metà (470.000) risiedono nel Mezzogiorno; anche tra chi lo possiede, più della metà (57%) lo deve condividere con la famiglia e solo il 6,1% vive in famiglie dove ciascun componente ha a disposizione un proprio pc;
- sebbene solo il 4% dei 6-17enni vive in famiglie in cui non è disponibile l’accesso a internet, la disponibilità di connessione non è sempre funzionale alla didattica a distanza e va a amplificare la carenza di device.

A complicare ulteriormente le cose intervengono gli spazi abitativi disponibili. Secondo i dati al 2018, il 41,9% dei minori vive in abitazioni sovraffollate e non ha a disposizione uno spazio tranquillo dove connettersi e studiare. Una quota decisamente inferiore ma significativa, pari al 7% dei minori (e al 7,9% dei 18-24enni) vive in condizioni di grave deprivazione abitativa (problemi strutturali, senza bagno/doccia con acqua corrente, con problemi di luminosità).

Un ultimo indicatore riguarda le effettive competenze digitali possedute dagli studenti italiani. La familiarità e l’uso intensivo che le giovani generazioni hanno con alcuni device, primo fra tutti lo smartphone, il loro essere “nativi digitali” ha diffuso nella pubblica opinione la facile idea che essi possano fronteggiare anche un uso del digitale più “esperto”, che vada al di là dell’utilizzo più diffuso, quello a scopo ludico e relazionale che passa attraverso la rete. In effetti, se è possibile affermare che quasi tutti i teenagers (ma meno i bambini e i preadolescenti) navigano su internet - nel 2019 il 92,2% dei 14-17enni , solo il 30,2% possiede alte competenze digitali, mentre circa il 60% si colloca su livelli bassi e il 3% non possiede alcuna competenza digitale, un quadro che per di più si contraddistingue per usuale differenze territoriale a svantaggio del Mezzogiorno.

L’edilizia scolastica

Pensando al prossimo anno scolastico, e all’auspicato rientro a scuola, non si può non andare con la mente al vasto e vetusto patrimonio immobiliare della scuola italiana. Non si può negare che in questi ultimi anni si sia assistito a un ritorno di attenzione verso la manutenzione e l’ammodernamento degli edifici, a tentativi di rilanciare e velocizzare gli investimenti, a concreti esempi di riorganizzazione e ripensamento complesso degli spazi.

Un compito complesso e costoso, che deve fare i conti con uno stock patrimoniale che vede il 22,8% degli edifici scolastici nati per altri usi e poi riadattati, il 53,8% senza certificato di agibilità, il 28,2% costruiti prima del 1960. Secondo i dati dell’anagrafe dell’edifica scolastica, al 2016, l’8,6% degli edifici ha uno o più problemi strutturali, quali compromissione delle strutture portanti verticali, dei solai, delle coperture (tab. 4). Fondamentale è poi l’ammodernamento e l’efficientamento energetico e sostenibile dell’impiantistica non da ultimo, la ristrutturazione degli spazi esterni e interni in funzione di una didattica innovativa , flessibile, personalizzata. La Fondazione Agnelli ha recentemente stimato un fabbisogno di 200 miliardi di euro di investimenti in edilizia scolastica, pari all’11% del Pil.

Fuori e dentro la Dad

Nel complesso, solo l’11,2% dei dirigenti dichiara che, al momento della rilevazione, tutti gli studenti erano coinvolti in attività didattiche a distanza, con minime differenziazioni a livello territoriale, tranne nelle scuole del Nord-Ovest dove il corrispondente valore scende al 9,5%.

Nel Paese si sono determinate situazioni significativamente differenziate, e i dati raccolti non possono essere considerati come elementi di una “fotografia immutabile”, considerando che lo scenario è in continua evoluzione e che tutte le scuole sono state impegnate - e lo sono ancora – nel trovare soluzioni e nel fluidificare e rendere effettivo il diritto allo studio tramite la didattica a distanza (tab. 5):
-    a livello nazionale, il 39,9% dei dirigenti segnala, a fine aprile, una “dispersione” nella Dad superiore al 5% degli studenti delle proprie scuole, suddivisi tra il 21,9% con una quota di studenti non raggiunti compresa tra il 5,1% e il 10% e il 18% che ha purtroppo lasciato finora sul campo più del 10% degli studenti;
-    è nelle aree del Sud del Paese che si rileva un peso superiore alla media di istituti con elevati tassi di studenti che, finora, non si è riusciti a coinvolgere nella Dad, in quanto è il 22,9% dei rispondenti a segnalare che, nelle scuole da loro dirette, non è stato raggiunto dall’offerta didattica più del 10% del totale degli studenti;
-    maggiori difficoltà di coinvolgimento si registrano nelle scuole del primo ciclo, i cui dirigenti, nel 19,4% dei casi, segnalano di non avere ancora raggiunto più del 10% dei propri studenti (valore che scende al 15,2% dei dirigenti di scuole che hanno solo o anche il secondo ciclo).

Per i motivi più diversi (cui non è estranea anche la scarsa o nulla familiarità con le Tic o la mancava di dispositivi idonei, ma soprattutto il work in progress nell’attivazione della Dad), anche nel corpo docente delle scuole coinvolte vi sono, a fine aprile, sacche di inattività:
-    se è il 45,6% a segnalare che tutti i docenti sono impegnati in attività didattiche a distanza;
-    il restante 54,4% si divide tra chi ha ancora una quota non superiore al 2% di docenti non coinvolti (23,3% dei dirigenti intervistati), il 18,6% di dirigenti con quote di docenti non ancora attivati comprese tra il 2,1% e il 5% e, infine, il 12,5% di dirigenti di scuole in cui è più del 5% del corpo docente ancora non coinvolto.

Focalizzando le diversi ripartizioni geografiche, non sembrano emergere aree del Paese in maggiore difficoltà di altre, almeno da questo punto di vista: nel Sud, la quota di intervistati che sottolinea il pieno coinvolgimento del corpo docente è più elevata rispetto alle altre ripartizioni (47,3%) mentre la percentuale di dirigenti di scuole dove più del 5% dei docenti si sta ancora organizzando o non è coinvolto è del 13% sia nel Sud sia al Centro, per poi scendere di poco nel Nord Ovest (12%) e nel Nord-Est (11,6%).

Gli istituti del primo ciclo, se da un lato hanno, come già detto, denotato una maggiore difficoltà di coinvolgimento dei propri allievi nelle attività didattiche a distanza, si distinguono altresì per una pronta attivazione dei docenti, considerato che, a fine aprile, ben il 49,5% degli intervistati ha dichiarato di aver tutto il corpo docente coinvolto, contro il 37,9% dei dirigenti di scuole con solo o anche il secondo ciclo.

L’impegno tecnologico e il nodo della connessione

Di fronte alla necessità e all’emergenza, solo pochissimi istituti hanno scoperto di essere già “attrezzati”, nelle diverse componenti scolastiche, per rispondere ad una domanda generalizzata di didattica veicolata a distanza. 

Per quanto negli ultimi anni è indubbio che vi siano state nella scuola italiana varie iniziative finalizzate a diffondere l’utilizzo delle tecnologie informatiche nella didattica, che in ogni scuola sia presente un animatore digitale, che sia stato realizzato un vasto piano di formazione dei docenti, l’emergenza sanitaria ha fatto emergere con chiarezza l’insufficienza di una strategia esclusivamente basata sulle scelte a livello locale, di istituto, di singolo operatore, che ha determinato una situazione a “macchia di leopardo” non tanto territorialmente ma tra scuola e scuola e addirittura tra classe e classe.

Un primo e fondamentale nodo da affrontare – prima di qualunque ragionamento sulla qualità e sull’efficacia della didattica a distanza, o sulle competenze tecnologiche possedute, sulle metodologie didattiche proprie di una formazione online – è stato quello delle dotazioni tecnologiche e, per certi versi, ancor di più, quella della connettività.

Il problema si è spostato dalla struttura scolastica vera e propria alle singole componenti: docenti, studenti, ma anche il personale Ata e i dirigenti scolastici, lavorando da casa, hanno man mano cominciato a scontrarsi con problemi di connessione (anche del territorio) e di giga disponibili e poi con dotazioni tecnologiche che, se anche disponibili, si sono rilevate insufficienti nel numero e nella usabilità.

Il tema è noto: siamo un popolo di possessori di smartphone, ma molto meno diffusi tra le famiglie italiane sono i personal computer ed i tablet, dispositivi più adatti ad una didattica a distanza quotidiana. Senza contare che anche nelle case dove il pc è presente, esso è stato conteso dai vari componenti della famiglia, per studiare o lavorare.

Anche prima che il Miur mettesse a disposizione dei finanziamenti specifici, alcune scuole hanno cominciato a organizzarsi per sopperire alle carenze di dotazione di dispositivi individuali adeguati da parte di studenti, docenti, Ata attingendo ad eventuali disponibilità proprie della scuola, avviando un processo di acquisizione e distribuzione che è ancora in corso, ma che è andato avanti e prosegue con caratteristiche e modalità diverse da scuola a scuola.

A fine aprile, in particolare (tab. 6):
- l’1,1% dei dirigenti dichiarava di non aver dovuto fare alcun tipo di intervento di ordine tecnologico ed un altro 5% che la didattica a distanza si è necessariamente adeguata alle dotazioni tecnologiche di ciascun studente, personalizzando le modalità di comunicazione nella relazione docente-discente; hanno scelto questa modalità di fronteggia mento del gap tecnologico in misura maggiore le scuole del Mezzogiorno (7,2% dei dirigenti delle scuole del Sud);
- l’84,2% dei dirigenti sottolinea che è stato necessario fornire attrezzature hardware agli studenti (e come accennato, in molte realtà le procedure di acquisizione e attribuzione del materiale non è ancora completato) e il 23,5% che la scuola ha fornito attrezzature hardware ai docenti; In media nazionale, nelle scuole partecipanti all’indagine, circa il 4% del totale degli studenti, a fine aprile, era stato supportato dalla scuola tramite la fornitura di un supporto hardware;
- a testimonianza delle diverse velocità con cui si proceduto a colmare il gap tecnologico, il 6,6% dei dirigenti evidenzia che, pur esistendone l’esigenza, al momento non ha ancora la disponibilità, valore che sale al 9% tra i dirigenti delle scuole del Sud.
Molti dirigenti, poi, rimarcano:
- da un lato, che per funzionare davvero la didattica a distanza e, più in generale l’ecosistema scolastico, gli interventi per sopperire alla carenze tecnologiche hanno opportunamente riguardato anche il personale di laboratorio e amministrativo, anch’esso in prima linea nel supportare il “front office” e il back office” della didattica a distanza e, in generale, dell’istituzione scolastica;
- dall’altro, che frequentemente lo sforzo “tecnologico” si è allargato e in alcuni casi si è dovuto concentrare non solo sul dispositivo in sé ma anche sulla dotazione di giga o sulla connessione a internet.

A questo proposito, infatti, la testimonianza dei dirigenti scolastici ci descrive uno scenario in cui solo nel 22,5% dei casi non sono stati riscontrati problemi particolari legati alla connessione ad internet, in modo tutto sommato omogeneo dal punto di vista territoriale.

La maggioranza degli intervistati (42,5%) segnala che solo una minoranza, più o meno ampia, di studenti e/o docenti ha segnalato problemi di connessione, soprattutto nel Nord-Ovest del Paese (48,3%). Di contro, per il 29% dei dirigenti il problema è più ampio, riguardando la maggioranza dei docenti e degli studenti, ed è particolarmente diffuso nella scuole dislocate nelle aree meridionali ed insulari (34,6%) (tab. 7).

A prescindere dagli investimenti tecnologici che le singole scuole hanno effettuato negli anni passati, dalla loro maggiore o minore familiarità e utilizzo di metodologie didattiche innovative e “tecnologiche”, larga parte delle realtà scolastiche si è dovuta scontrare con i ritardi dell’infrastrutturazione telematica che caratterizza il nostro Paese.

Anche se in questo periodo il livello di connessione disponibile per gli istituti scolastici è stato del tutto indifferente, in quanto la didattica ha travalicato le mura scolastiche, l’utilizzo massiccio della Dad ha reso evidente che l’innovazione didattica cui si vuole tendere non può che trovare le sue fondamenta in un serio e cadenzato programma di intervento che parta proprio dalla infrastrutturazione telematica. Un primo passo, che mette in campo 400 milioni di euro, è sicuramente l’avvenuta rimodulazione del piano banda larga, che ha previsto l’interconnessione immediata di circa 29.000 plessi scolastici, che dovrebbe però concretizzarsi, dopo i necessari bandi, a partire da ottobre 2020, e l’interconnessione, a valle di notifica alla Commissione Europea, di circa 2.800 plessi, che hanno bisogno di posa della fibra.

Parallelamente, il piano prevede anche l’erogazione di voucher alle famiglie per venire incontro alle esigenze di connettività emerse con il Covid-19 e in previsione di un prolungamento, totale o parziale, delle esperienze Dad anche nel prossimo anno scolastico. In particolare:
- per le famiglie senza limiti Isee: 200 euro per la connettività ad almeno 30 Mbps (tutte le tecnologie incluso satellite)
- per le famiglie con Isee sotto 20.000 euro: 500 euro (200 euro per la connettività e 300 euro per tablet o pc in comodato d’uso).

Le conseguenze del gap tecnologico

Al di là delle considerazioni relative all’efficacia e funzionalità di una relazione didattica basata esclusivamente sull’e-learning e alla preparazione dei docenti rispetto a modalità, strumenti e metodologie didattiche del tutto diverse da quelle utilizzate in aula, le scuole hanno toccato con mano tutte le conseguenze negative del gap tecnologico così diffuso nel nostro Paese (tab. 8)

È l’82,1% dei dirigenti intervistati a essere pienamente consapevole, perché lo ha verificato nella quotidianità dell’emergenza, che le differenti dotazioni tecnologiche, di connettività e di familiarità d’uso sia tra i docenti sia tra gli studenti costituiscono un ostacolo al pieno funzionamento della Dad.

Il 74,8%, inoltre, ha verificato come l’utilizzo emergenziale di modalità di didattica a distanza abbia ampliato il gap di apprendimento tra gli studenti, a seconda del livello di disponibilità di strumenti e di supporti informatici, ma anche più in generale in base al livello di cultura tecnologica delle famiglie italiane.

Particolarmente toccate dalle conseguenza del gap tecnologico sembrano essere le scuole del primo ciclo, che alle difficoltà comuni aggiungono anche la più giovane età degli studenti che, per quanto nativi digitali, a pari di condizione socio-economico e culturale hanno meno disponibilità di dispositivi adatti alla didattica e sono sicuramente ancora lontani da un utilizzo diverso da quello soprattutto ludico degli stessi.

La consapevolezza degli ostacoli all’apprendimento dovuti al gap tecnologico e alla familiarità d’uso raggiunge l’85,5% dei dirigenti del primo ciclo ed è ben il 78,8% di costoro a constatare come i livelli di apprendimento differiscano in base al livello di dotazione e cultura tecnologica degli studenti e delle loro famiglie (tab. 9).

L’impegno scolastico

Tra mille difficoltà, la scuola dell’emergenza Covid-19 va avanti soprattutto in virtù dell’impegno personale delle diverse componenti scolastiche, con in prima linea docenti, genitori e studenti.

È questa l’impressione che si ricava in maniera chiara dalle percentuali “bulgare” di dirigenti scolastici che evidenziano (tab. 10):
- che i ragazzi hanno dimostrato di avere spirito di adattamento e collaborazione (98% di dirigenti molto o abbastanza d’accordo con questo affermazione;
- che da parte loro, i docenti sono animati da buona volontà e stanno facendo del loro meglio (99,1%), anche quelli che sono stati catapultati nelle rete da un giorno all’altro o che eventualmente si limitano a utilizzare solo le funzionalità del registro elettronico, rimanendo tutto sommato ancorati ad una didattica pensata per l’aula.

È proprio questa volontà comune di mantenere le relazioni con compagni e insegnanti, forse più della spinta “responsabile” a studiare ed apprendere, a insegnare, trasmettere conoscenze, sviluppare competenze, a far si insomma che non sia un “anno perso”, che sembra mantenere tutto sommato alta l’attenzione degli studenti.

Solo una quota molto ristretta di dirigenti (17,6%) ha notato, rispetto ai primi giorni di chiusura delle scuole - quando per molti la didattica a distanza sembrava un’alternativa transitoria, di breve durata e aveva anche il fascino della novità - un progressivo allentamento dell’interesse e dell’impegno degli studenti.

Su livelli analoghi (19,6%) si attesta l’accordo, totale o parziale, sull’ipotesi che la situazione attuale determinerà un aumento della dispersione scolastica.

L’aspetto critico più evidente è che volontà e impegno non bastano per assicurare l’inclusione nei processi educativi degli studenti con bisogni educativi speciali.

Sorprende comunque che solo il 53,5% dei dirigenti sia molto o abbastanza d’accordo con l’affermazione che con la Dad non si riesce a coinvolgere pienamente gli studenti con bisogni educativi speciali-Bes.

Occorre però considerare lo sforzo che le scuole italiane hanno fatto per supportare soprattutto gli studenti più deboli, con l’essenziale contributo dei docenti di sostegno e delle famiglie, impegno che molti dirigenti rivendicano.

Un altro elemento da considerare nella lettura dei dati, che riguarda questo come altri aspetti, è che un alto livello di coinvolgimento non necessariamente coincide con l’effettività di una piena, efficace, complessa attività didattica a distanza che, come più volte sottolineato, deve farei conti sia con il gap tecnologico, sia con la maggiore o minore familiare con le metodologie proprie della Dad, sai con le difficoltà di raggiungere e mantenere alta l’attenzione da parte di determinati gruppi di studenti. Ne sono consapevoli molti dirigenti scolastici: eccone alcune testimonianze:

“Seppur con buone competenze interne a livello informatico, ed un lavoro da sempre anche in modalità peer to peer, accompagnato da consapevolezza della necessità di agire e da responsabilità professionale, non eravamo pronti sia a questo tipo di didattica che richiede anche diverse competenze metodologiche per lezioni in aule virtuali, sia a modalità di lavoro agile, considerato che siamo sempre tutti presenti a scuola, modalità che non si improvvisa. Lo stress riguarda sia il livello organizzativo, supportare e motivare in una prima fase i docenti, ascoltare le famiglie, avviare modalità di lavoro agile, agire attraverso contatti per cercare di raggiungere tutti, reperire strumentazioni, sia l’agire una didattica di cui non si hanno dati oggettivi di efficacia”.

“È estremamente complicato raggiungere tutti, soprattutto gli alunni con Dsa, Bes, Dva, e gli stessi docenti si sono trovati spiazzati, soprattutto nel primo ciclo, perché la relazione umana è insostituibile.”

“La situazione è molto eterogenea all’interno della scuola. Alcune classi stanno lavorando in modo ”perfetto” altre fanno solo finta. L’elemento più importante è la competenza metodologica non gli strumenti. Qualunque smartphone è 100 volte più potente di un computer di 10 anni fa, ma se gli insegnanti non sono formati tendono a riprodurre a distanza le stesse metodologie trasmissive che anche in presenza sono superate”.

“La didattica a distanza se da una parte ha visto l’impegno enorme dei docenti e la collaborazione e solidarietà dei genitori nel facilitare la comunicazione alunni/docenti supportando le famiglie e gli alunni più fragili, dall’altro ha visto una grande varietà di strumenti e metodi di connessione e comunicazione. E se per alcuni da subito è stato facile connettersi con le piattaforme scelte dalla scuola, altri continuano ad utilizzare lo smartphone per ricevere e riconsegnare materiali”.

Le famiglie al centro della Dad

L’esperienza di questi giorni ha messo ancora una volta in evidenza, se mai ce ne fosse stato bisogno, come nelle dinamiche educative la famiglia d’origine degli studenti giochi un ruolo di primo piano:
- se, come si è visto, le differenti tipologie familiari – dalla condizione socio-economica e culturale, alla familiarità con le nuove tecnologie, fino al numero di componenti e alla dimensione dell’abitazione, solo per citare alcune delle variabili che stanno influenzando la relazione insegnamento-apprendimento a distanza – determinano l’efficacia della didattica a distanza così come attuata in questo periodo di emergenza;
- è altrettanto vero, a parere dei dirigenti scolastici intervistati, che in generale i genitori stanno dedicando – anche perché in molti casi non c’è alternativa – molto più tempo del solito al supporto allo studio dei propri figli, soprattutto quelli che frequentano la scuola dell’infanzia e la primaria.

L’85,4% dei dirigenti, infatti, segnala il necessario maggiore impegno dei genitori, che, come è logico aspettarsi, diventa generalizzato (94,4%) per gli alunni delle scuole del primo ciclo, mentre appare più sporadico e non così strettamente necessario per gli studenti delle superiori (il maggior tempo dedicato dai genitori è segnalato dal 67,6% dei dirigenti di scuole che comprendono anche il livello secondario superiore).

L’indispensabilità della presenza costante dei familiari in affiancamento e supporto degli alunni è ribadita dal 90,7% dei dirigenti di scuola primaria (tab. 11).

A pensarci bene, la Dad ha fatto emergere, amplificandone la portata e la valenza, tutto quel lavoro di supporto – più o meno nascosto – che le famiglie italiane usualmente svolgono in merito allo studio dei propri figli.

Passata l’emergenza, occorrerà riflettere, senza pregiudizi, sulla deriva di lungo periodo che spesso puntella la relazione scuola-famiglia, caratterizzata da due fenomeni con risvolti negativi, due facce della stessa medaglia:
- da una parte, l’implicita aspettativa, da parte della scuola, che genitori, nonni, zii aiutino i propri figli o nipoti nei compiti e nelle varie incombenze scolastiche. Con la Dad tale impegno è diventato per certi versi obbligato – e al decrescere dell’età degli studenti del tutto indispensabile – ma proprio per questo ha fatto emergere chiaramente come l’eventuale svantaggio iniziale dei bambini fragili, provenienti da contesti socio-economici territoriali e familiari svantaggiati, non può essere recuperato del tutto se proprio a tale contesto è richiesto di essere parte integrante della dinamica educativa. Bambini e ragazzi - in una scuola che non contribuisca a rafforzare gli steccati sociali e a bloccare l’ascensore sociale - dovrebbero lavorare a scuola, sotto la guida degli insegnanti, secondo le proprie capacità e responsabilità, non avendo timore di sbagliare, senza poter contare sull’aiuto più o meno esperto dei propri familiari;
- dall’altra, il paradosso di famiglie scarsamente interessate alla politica e alle strategie della scuola, poco partecipi alla vita scolastica, ma in prima linea nella difesa acritica dei propri figli, pronte a mettere in discussione – a torto o a ragione, con competenze esperte o meno – l’operato dei docenti. Dobbiamo dunque domandarci se questo fenomeno non sia anche un riflesso proprio di questo coinvolgimento implicito – ma che dunque possono sentirsi valutate tante e quanto i propri figli.

La valutazione

Uno degli aspetti più controversi e dibattuti in questo periodo è sicuramente quello della valutazione degli apprendimenti, con il Ministero orientato verso la realizzazione della sola prova orale in presenza per l’esame conclusivo del secondo ciclo, la sostituzione dell’esame conclusivo del primo ciclo con una tesina e la valutazione complessiva da parte dei docenti ed una “promozione” generalizzata degli altri studenti, tranne di coloro hanno maturato troppe assenze nella parte di anno scolastico svolto in presenza.

Ma al di là degli aspetti formali – e dello sgretolamento di un passaggio di fase a forte impatto emotivo e valoriale come l’esame di maturità – anche per la parte svolta a distanza la scuola ha bisogno di individuare elementi di valutazione e di riflessione su quanto - a livello individuale e nella collettività degli studenti - ha inciso lo stravolgimento determinato dal repentino spostamento sulle autostrade telematiche della relazione educativa.

Solo una minoranza, per quanto ampia, tra i dirigenti scolastici intervistati ritiene che le modalità proprio della didattica a distanza permetteranno di effettuare una adeguata valutazione dei livelli di apprendimento raggiunti dagli studenti. Ne è infatti molto o abbastanza convinto solo il 43,3% dei rispondenti, valore che sale al 46,4% tra i dirigenti degli istituti del Mezzogiorno (tab. 12).

Quasi unanime è invece l’opinione (espressa dal 98,6%) che la valutazione dei risultati raggiunti dagli studenti debba valorizzare anche l’impegno, la maturità, le competenze trasversali sviluppate dallo studente. Si tratta, d’altronde, di aspetti tenuti in buon conto anche nelle prassi valutative della scuola in presenza, che richiamano la mission educativa a tutto tondo propria della scuola, e che a maggior ragione sono al centro dell’idea di valutazione che ha con tutta probabilità accompagnato l’azione educativa dell’emergenza, guidando i docenti nella individuazione di contenuti, modalità espositive e verifiche degli apprendimenti.

L’eredità culturale dell’emergenza Covid-19

Cosa lascerà dietro di sé questa esperienza, quando finirà l’emergenza? Quale sarà l’impatto su un sistema scolastico mastodontico e lento nei cambiamenti?

E’ presto ovviamente per affermare che “niente sarà più come prima”, ma alcuni elementi di riflessione già emergono dalle opinioni dei dirigenti scolastici.

In primo luogo, nonostante la proliferazione di progetti, iniziative, iniezioni di tecnologie, formazione dei docenti e sperimentazioni di nuovi modelli scolastici e metodologie didattiche innovative, si è proceduto in ordine sparso, senza riuscire a fare sistema e la scuola di fronte all’emergenza si è scoperta culturalmente non attrezzata per la didattica a distanza. Ne è convinto il 61,1% dei dirigenti intervistati, soprattutto (62,8%) quelli che dirigono istituti del primo ciclo (tabb. 13-14).

Vale anche il ragionamento opposto: proprio grazie a progetti, iniziative, sperimentazione, tecnologie, a volte inserite nel disegno complessivo di sviluppo e organizzazione di tutto un istituto, a volte portate avanti solo da gruppi di docenti o anche da singoli innovatori, l’impatto dell’emergenza Covid-19 è stato tutto sommato fronteggiato e il corpo docente si è riscoperto “comunità educante”, ognuno supportando l’altro in base alle propri competenze e capacità.

Per tutti, secondo i dirigenti scolastici intervistati, è stata un’occasione di vero apprendimento e riflessione profonda sul futuro della scuola: è infatti il 95,9% degli intervistati ad essere molto (60%) o abbastanza d’accordo sul fatto che l’utilizzo generalizzato della Dad ha permesso alle scuole e ai docenti di apprendere cose utili per il futuro/di ragionare sul futuro della didattica e dell’insegnamento.

Apprendimento e riflessione non fini a sé stessi, dato che ben l’84,3% dei dirigenti ritiene che probabilmente in futuro si ricorrerà più spesso alla didattica a distanza, integrata con le attività in aula.

Se ben governate, ed accompagnate da un processo di definizione condivisa di standard, dotazioni, obiettivi, metodologie e contesti di applicazione, le massicce iniezioni di tecnologia rese indispensabili dall’emergenza potrebbero produrre effetti benefici nel lungo termine, non solo per quanto riguarda la didattica, ma anche per la governance complessiva dell’ecosistema scolastico, spingendo sull’acceleratore di quanto già si viene costruendo con l’utilizzo del registro elettronico (amministrazione, riunioni, consigli di classe e d’istituto, ecc.) e con le diverse attività e iniziative che dal basso e dall’alto stanno interessando il sistema scolastico.

Fondamentale è comunque il supporto che la tecnologia potrebbe fornire anche nella gestione della fase 2, ancora una volta non solo per la didattica in senso stretto, ma anche come supporto alla governance di questa complessa e delicata fase.

Involontariamente, in pochissimo tempo, la scuola italiana si è trovata a metter in piedi una grande “sperimentazione di massa”, un forzato tirocinio pratico per l’organizzazione degli istituti e per i docenti, di cui appare necessario raccogliere senza pregiudizi i risultati negativi e positivi, quale base di riferimento comune e condivisa per lo sviluppo della scuola del futuro. La didattica a distanza tout court non è la “scuola che vogliamo e immaginiamo”, ma metodi, strumenti, contenuti, esperienze, ecc.

Alcune piste di riflessione sembrano già delineate:

- la necessità di rimettere insieme del tessere del puzzle dell’innovazione e della sperimentazione didattica, in presenza e a distanza, che comprenda ma vada oltre l’opzione tecnologica e digitale, per individuare uno standard minimo comune all’intero sistema scolastico, sia in termini di modelli didattici sia in relazione all’ organizzazione e alla disponibilità degli spazi e degli strumenti in cui l’azione educativa viene esercitata;
- ripensare alle radici il rapporto con le famiglie, con una particolare attenzione ad un rinnovato patto formativo che rifondi la comunità educante allargata, con ruoli e compiti definiti, ancorché integrati. Soprattutto è urgente lavorare sulla riduzione se non annullamento dell’influenza della famiglia d’origine sulle chance di successo scolastico degli studenti;
- pur partendo dalla constatazione che l’utilizzo della Dad in emergenza ha acuito le disuguaglianze, individuare e valorizzare quegli elementi della didattica innovativa, che passa per il digitale e può essere integrata, ma non sostituita da attività “ a distanza”, che viceversa possono contribuire a ridurre le plurime condizioni di svantaggio educativo ancora persistenti;
- nel periodo di chiusura delle scuole, il Miur sul proprio sito istituzionale ha attivato un ambiente di lavoro in progress per supportare le scuole nell’attivazione della Dad, attraverso il quale è possibile accedere a: strumenti di cooperazione, scambio di buone pratiche e gemellaggi fra scuole, webinar di formazione, contenuti multimediali per lo studio, piattaforme certificate, anche ai sensi delle norme di tutela della privacy, per la didattica a distanza. Ciò ha messa in evidenza la necessità di predisporre, anche per il futuro, di una piattaforma, un punto di riferimento istituzionale che offra linee guida, esempi, supporti pratici, prodotti multimediali, ecc.;
- delineare un piano complessivo del sistema pubblico per l’educazione digitale, che oltre al prioritario intervento di assicurare connettività e infrastruttura tecnologica a tutte le scuole, secondo standard minimi, ricompatti in un’univa visione di sviluppo complessivo e armonico tutti gli investimenti destinati all’innovazione, finora in gran parte assegnati su base progettuale, senza che vi sia stato un effettivo supporto e accompagnamento delle scuole meno attrezzate; occorre inoltre individuare figure stabili, distinte dai docenti o dagli assistenti di laboratorio, e le competenze tecniche necessarie per il supporto alla scuola digitale.