Comunicati Stampa

Le «Considerazioni generali» del 52° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2018

Andiamo da un’economia dei sistemi verso un ecosistema degli attori individuali

Senza la dimensione tecnico-economica necessaria a dare seguito al progetto, l’annuncio politico da profetico si fa epigonale. Serve una responsabilità politica che non si perda in vicoli di rancore o in ruscelli di paure

Roma, 7 dicembre 2018 - Nell’ultima parte dell’anno scorso e nella prima parte di quello che si va chiudendo, il miglioramento dei parametri economici, la fiducia delle famiglie e delle imprese, le positive dinamiche industriali e dell’occupazione facevano percepire la possibilità concreta di vedere completato il superamento della crisi e dei dubbi sul nostro modello di sviluppo. La ripartenza poi non c’è stata: è sopraggiunto un inciampo, un rabbuiarsi dell’orizzonte.

Guardando agli ultimi mesi, segnati da un rallentamento degli indicatori macroeconomici, da un volgersi al negativo del clima di fiducia delle imprese, da un impoverimento del vigore della crescita, dal rinforzarsi di vecchie insicurezze nella vita quotidiana e dal costituirsene di nuove, verrebbe da pensare che tutto arretra. Specie se si guarda, nella cronaca quotidiana, al rapido affermarsi della convinzione che siamo oggi nel bel mezzo di un annunciato ritorno a una economia dello «zero virgola qualcosa».

Sono sotto gli occhi di tutti: lo squilibrio dei processi d’inclusione dovuto alla contraddittoria gestione dei flussi migratori; l’insicura assistenza alle persone non autosufficienti, interamente scaricata sulle famiglie e sul volontariato; l’incapacità di sostenere politiche di contrasto alla denatalità; la faticosa gestione della formazione scolastica e universitaria; il cedimento rovinoso della macchina burocratica e della digitalizzazione dell’azione amministrativa; la scarsità degli investimenti in nuove infrastrutture e nella manutenzione di quelle esistenti; il ritardo nella messa in sicurezza del territorio o nella ricostruzione dopo le devastazioni per alluvioni, frane e terremoti.

La società vive una crisi di spessore e di profondità: gli italiani sono incapsulati in un Paese pieno di rancore e incerto nel programmare il futuro. Ogni spazio lasciato vuoto dalla dialettica politica è riempito dal risentimento di chi non vede riconosciuto l’impegno, il lavoro, la fatica dell’aver compiuto il proprio compito di resistenza e di adattamento alla crisi. L’impresa che ha saputo ristrutturarsi, anche a costo di sacrifici e di tagli occupazionali, non trova risposte nella modernizzazione degli assetti pubblici, nel fisco, nella giustizia, nelle reti infrastrutturali, nella ricerca. L’operaio, il dirigente, il libero professionista o il commerciante che hanno affrontato la crisi economica hanno atteso, troppo spesso invano, il miglioramento del contesto che a quegli sforzi dava senso e direzione. Le famiglie e le aziende che si sono sostituite al welfare pubblico hanno sperato in una uscita dalla provvisorietà, ma hanno finito per rimanere via via più isolate.

Tuttavia, si avvertono segnali che da tempo mancavano: la ripresa degli investimenti nel settore delle costruzioni, dopo anni di progressiva e strutturale decadenza; il consolidamento di una positiva bilancia commerciale nelle tecnologie; il primato italiano nell’economia circolare, con uno spread tecnologico positivo e in costante miglioramento rispetto al sistema industriale tedesco; il crescente fatturato dei tanti soggetti dell’economia esplorativa (dalle piattaforme per i portapacchi dell’era digitale ai tanti settori dell’industria e della ricerca globale).

Andiamo da un’economia dei sistemi verso un ecosistema degli attori individuali, verso un appiattimento della società. In un ecosistema di attori ‒ e qui sta la potenza del cambiamento ‒ ciascuno afferma un proprio paniere di diritti e perde senso qualsiasi mobilitazione sociale. Ognuno organizza la propria dimensione sociale fuori dagli schemi consolidati: il lavoro dipende da qualche specializzazione e quindi non ha un padrone, ma tanti committenti; ci sono per ciascuno momenti di successo e momenti di regressione; convivono interessi diversi e anche contrapposti; non si opera più dentro le istituzioni per cambiarle, ma ci si mobilita al di fuori.

Il sistema sociale, attraversato da tensioni, paure, rancore, guarda al sovrano autoritario e chiede stabilità, rompe l’empatia verso il progresso, teme le turbolenze della transizione. Il popolo si ricostituisce nell’idea di una nazione sovrana supponendo, con una interpretazione arbitraria ed emozionale, che le cause dell'ingiustizia e della diseguaglianza sono tutte contenute nella non-sovranità nazionale. I riferimenti alla società piatta come soluzione del rancore, e alla nazione sovrana come garante di fronte a ogni ingiustizia sociale, hanno costruito il consenso elettorale e sono alla base del successo nei sondaggi politici in Italia come in tante altre democrazie del mondo.

Siamo di fronte a una politica dell’annuncio. Ma la funzione politica, la responsabilità della classe dirigente, il ruolo dell’establishment stanno nel proporre una prospettiva nel futuro. L’annuncio, senza la dimensione tecnico-economica necessaria a dare seguito al progetto politico, da profetico si fa epigonale.

L’errore attuale rischia di essere quello di dimenticare che lo sviluppo italiano continua ad essere diffuso e diseguale. Bisogna prendere coscienza del fatto di avere di fronte un ecosistema di attori e processi. C’è bisogno di un dibattito sull’orientamento del nostro sviluppo e sulla capacità politica di definirne i nuovi traguardi. Ritorna il tema dell’egemonia e del ruolo delle élite. Serve una responsabilità politica che non abbia paura della complessità, che non si perda in vicoli di rancore o in ruscelli di paure, ma si misuri con la sfida complessa di governare un complesso ecosistema di attori e processi.

 

7 Dicembre 2018